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Che cosa ne dice della felicità la psicologia

...Il senso della vita e la ricerca della gioia sono questioni che rimandano ad una dimensione sacra e che richiedono speculazioni ben più alte e faticose, più precisamente il vivere e il soffrire di tutta una vita.

felicitàPer la psicoanalisi e per le teorie che ad essa si rifanno, la felicità corrisponde essenzialmente al soddisfacimento delle pulsioni (di qualunque natura esse siano). L’uomo sarebbe fondamentalmente governato dal principio del piacere, anche se, divenuto adulto, deve “fare i conti” col principio di realtà il quale introduce nella condizione umana l’inevitabile esperienza del dolore. Il nucleo contenutistico delle correnti psicoanalitiche potrebbe essere espresso in questo modo “sto bene se riesco a soddisfarmi e se riesco il più possibile ad evitare la sofferenza”. Sicuramente la psicanalisi ha influito sull’individualismo imperante dei nostri giorni.

Per le teorie motivazionali la felicità corrisponde invece alla realizzazione di sé. Maslow aveva creato una “piramide dei bisogni” la cui punta sarebbe occupata dall’autorealizzazione ovvero dalla “comprensione di ciò che si vuole dalla propria vita”.

Dalle teorie motivazionali si sono poi sviluppate le teorie esistenzialistiche tra gli esponenti delle quali ricordiamo Viktor Frankl, neurologo e psichiatra all’università di Vienna (1905-1997).

Secondo Frankl l’uomo può essere felice solo quando diventa consapevole che per stare bene deve cercare il significato della sua esistenza ovvero trovare il senso della sofferenza che nella vita è intrinseca. La sua filosofia è nata soprattutto in conseguenza all’esperienza che egli aveva vissuto nei campi di concentramento nella seconda guerra mondiale.

Per le teorie cognitiviste (Beck, Ellis, Seligman) la felicità deriverebbe da uno stile di pensiero: l’ottimista percepisce i propri insuccessi come occasionali e impersonali e i propri successi come a fattori interni e personali. Il pessimista invece avrebbe “appreso l’impotenza” nel senso che le circostanze della sua vita lo hanno portato a credere di non essere in grado di incidere sulla realtà che lo circonda. Seligman ha elaborato il concetto di “impotenza appresa” e per curare i casi di depressione utilizza prevalentemente tecniche cognitive che mirano a modificare i pensieri irrazionali e disfunzionali che sottostanno al circolo vizioso del “bicchiere mezzo vuoto”.

Per concludere, vorrei esporre un punto di vista alternativo. Quando una persona decide di affrontare una di quelle discipline umanistiche come la psicologia, la filosofia o la scienza dell’educazione, lo fa perché ha delle domande a cui vorrebbe rispondere, domande su di sé, sugli altri, sui motivi per cui le cose vanno in un certo modo. Crede che se capirà tutto ciò riuscirà anche a decidere quale sia il modo migliore di comportarsi di fronte ai tanti problemi che la vita ci presenta.

In realtà, quando si esce da queste discipline, ci si accorge di quanto il senso della vita e la ricerca della gioia siano questioni che rimandano ad una dimensione sacra e che richiedono speculazioni ben più alte e faticose, più precisamente il vivere e il soffrire di tutta una vita.

Attenzione a chi propone pillole “per l’anima” che in realtà sono pillole “per la mente”.

Dott. Elena Cimarosti